Olio di canola? Può creare problemi cognitivi e di peso
Prendiamo con le dovute pinze questo studio, così come tutti gli studi che sottolineano un legame tra un alimento e l’incidenza di una malattia, laddove il legame è puramente un dato osservativo. C’è però un ma, in questo caso: e cioè che questo studio sottolinea un vizio di forma molto in voga, ovvero che un alimento povero di grassi saturi non è per forza un alimento buono o salutare, ma il suo essere buono e salutare è “venduto” come tale proprio per il suo scarso apporto di grassi saturi. Così come un alimento ricco di grassi saturi non è per forza un alimento cattivo.
Un esempio: l’olio di cocco è un alimento sostanzialmente ricco di grassi saturi, ma può fare parte di un’alimentazione salutare perché i suoi grassi saturi sono a media catena, e i grassi a media catena pur essendo saturi, sono benefici per il nostro organismo, per il nostro metabolismo e persino per le nostre difese immunitarie. Insomma: tra saturi sì e saturi no, la risposta più ragionevole è dipende. Dipende dai grassi saturi, dal loro tipo
Un esempio? L’olio di canola. L’olio di canola è spesso presente nei prodotti industriali che consumiamo.
E veniamo allo studio, che appunto analizza il consumo di olio di canola, ritenuto un olio salutare proprio perché a ridotto contenuto di grassi saturi. Un olio anche molto economico, perfetto per biscotti e merendine, tanto che dopo l’olio di palma e quello di soia, è il più sfruttato.
Partendo da questo presupposto, e considerando la sua crescita nel consumo come alternativa all’olio di oliva, per capire i suoi effetti sulla salute, un team di ricerca ha alimentato quotidianamente dei topi con olio di canola per dodici mesi, condendo semplicemente con olio di canola il loro mangime, rispetto ad altri tipi di grassi e monitorando la salute dei topi con diversi parametri. Dopo dodici mesi, i topi che avevano mangiato cibo condito con olio di canola rispetto ad altri olii, erano ingrassati di circa 6 chili. Peggio, la loro attività sinaptica era peggiorata, e c’era stata una risposta infiammatoria che aveva portato alla formazione di placche amiloidi, distruggendo le sinapsi. In parole povere, i topi erano più esposti al rischio di Alzheimer. I dettagli dello studio sono qui.
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